Non sono uno sciatore esperto. Ho alle spalle solo un paio di giornate sulla neve risalenti a due anni fa, quindi tecnicamente sono un principiante. Eppure sono il tipo di persona che solitamente si butta: scalate, grotte, viaggi in solitaria. Ho un’alta propensione al rischio fisico perché conosco il mio corpo e so come reagisce sotto pressione. Quando sono appeso a una parete, so che posso performare.
C’è però un’area della mia vita dove questa sicurezza fisica evapora, lasciando spazio a una paralisi teorica: il business. Qui vivo quello che chiamo il paradosso dell’allenatore grasso. Nel lavoro possiedo i concetti, ho letto i libri e studiato le strategie, ma mi manca la parte pratica. Sono come quel tecnico a bordo campo che sa spiegarti perfettamente la fisica di un calcio di rigore, ma che avrebbe il fiatone dopo due metri di corsa.
La differenza è brutale. In cima a una pista rossa, i miei sci puntano a valle prima che la mente possa obiettare. Ma davanti a un nuovo progetto, la mia scrivania diventa una prigione di Excel. Resto immobile per ore con 50 tab del browser aperte, mappando variabili macroeconomiche e scenari di mercato remoti, come se potessi scendere in pista solo dopo aver memorizzato la posizione di ogni singolo cristallo di neve della montagna. Nelle avventure fisiche ho le cicatrici; nel business ho solo manuali.
Sono qui in vacanza da due giorni, solo io e mio fratello. Ed è stato proprio ieri, mentre affrontavo una discesa, che ho sentito quella sensazione che inseguo ovunque: la dissoluzione del mondo. Mentre gli sci tagliavano la neve, non stavo pensando ai clienti o alle email di outreach. Non è che queste cose non siano importanti, ma in quel momento semplicemente non esistevano. C’ero solo io, la gravità e l’obiettivo di arrivare giù.
Due anni fa le piste rosse mi bloccavano. Ieri le ho affrontate con il timore giusto, quello che serve per rispettare la pendenza e non farsi male, ma senza il panico che ti congela. Il mio dialogo interiore era semplice: "Ok, adesso saliamo qui e poi iniziamo a scendere". Avevo una certezza assoluta: sapevo che avrei trovato un modo per arrivare a valle, anche a costo di togliermi gli sci e camminare nella neve fresca. Sulla neve l’esecuzione vince sull’analisi perché il corpo sa che deve muoversi. Nel business, invece, resto fermo in cima, terrorizzato dal non sapere esattamente cosa succederà dopo la prima curva.
Per sbloccarmi ho smesso di cercare la discesa perfetta al primo colpo e ho adottato un approccio reiterativo. In queste giornate ho fatto ogni singola pista almeno tre volte.
La prima discesa è pura sopravvivenza analitica. Il focus è chirurgico: capire la pista, mappare le lastre di ghiaccio, evitare i dossi. È il momento della raccolta dati.
La seconda discesa è per il panorama. Poiché conosco già le insidie, smetto di ossessionarmi sul controllo. Alzo lo sguardo, smetto di guardare le punte degli sci e me la godo, lasciando che il corpo faccia quello che ha imparato.
Solo alla terza discesa introduco la performance. Ho i dati della prima, ho la confidenza della seconda e ora posso spingere. Miglioro la tecnica, aumento la velocità, affino le curve.
Questo metodo mi ha portato a una conclusione liberatoria. Nonostante i miei limiti tecnici, faccio parte di quella minoranza che sulla montagna se la gode davvero. Scendo ridendo, parlando da solo per correggermi e giocando con la gravità. Per me la discesa non è un tragitto da A a B, ma un laboratorio di gioia. E quando cado, e cavolo se succede, la reazione automatica degli altri è la preoccupazione, mentre la mia è una risata. Rido di gusto, proprio come un bambino al parco che inciampa correndo. È un’antifragilità pura: godersela mentre si impara, senza irrigidirsi per la paura del giudizio altrui.
Ma come si porta questa leggerezza giù dalla montagna, lunedì mattina, quando il rischio non è cadere nella neve ma fallire un progetto?
Ho capito che non posso lanciarmi su una "pista nera" imprenditoriale, come una SaaS complessa o una startup scalabile, se non ho ancora interiorizzato l’equilibrio sulle basi. La mia sicurezza sulla neve nasce dallo spazzaneve: so farlo in ogni contesto, mi salva se perdo il controllo e mi permette di scendere ovunque.
Nel mondo del lavoro il mio spazzaneve ha una definizione precisa: generare quei 1.500 euro “a comando” necessari a coprire le spese di vita. Non è l’obiettivo finale, non è la gloria, ma è l’offerta minima che mi permette di stare in piedi. È la tecnica di base che toglie la paura di morire di fame. Una volta che hai lo spazzaneve, la paralisi sparisce, perché sai che male che vada puoi sempre frenare e ripartire.
E tutta quella parte noiosa? L’amministrazione, la burocrazia, i dettagli tecnici? Ho smesso di vederli come nemici della mia libertà. Ora li vedo per quello che sono: il prezzo del biglietto. Sono come la sveglia all’alba, il viaggio in autobus stipati per arrivare agli impianti o la coda gelida alla cabinovia. Non danno adrenalina, ma senza la risalita non c’è la discesa. Accettare la noia logistica è l’unico modo per accedere al divertimento dell’esecuzione.
Il piano d’azione quindi perde la sua complessità paralizzante. Diventa brutale nella sua semplicità: spazzaneve per le entrate base, pista blu per acquisire fiducia, e solo dopo la pista nera della scalabilità. Posso passare i prossimi mesi a guardare video tutorial e studiare le mappe, ma l’unico modo per imparare davvero è mettere gli sci ai piedi. La vita è presenza ed execution. Tutto il resto è solo guardare la montagna dal parcheggio.
È ora di sciare.
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